La Collegiata dell’Assunta, chiesa madre della città, fino all’unificazione delle sedi vescovili di Nardò e Gallipoli nel 1986 era la seconda istituzione ecclesiastica per importanza in diocesi neretina. Eretta ab immemorabili, cattedrale greca in epoca tardo bizantina, è la sede del capitolo galateo, ovvero di quel collegio di canonici che ieri più di oggi la governavano sotto la guida del protopapa greco prima, dell’arciprete poi. Per diversi secoli in Galatone si celebrò secondo i due riti, greco e latino. Nell’antica Collegiata dell’Assunta officiava il clero greco in favore della maggior parte della popolazione, chiaramente ellenofona. La Collegiata dell’Annunziata, rimaneggiata nel Settecento e oggi nota col nome di Santa Lucia, era invece il punto di riferimento per i fedeli di rito latino. A partire poi dalla fine del Quattrocento, per la progressiva diminuzione della popolazione greca, si affermò la preminenza del rito latino fatto convergere anch’esso nella Collegiata greca. Quest’ultima, infatti, per maggiore ampiezza, era la più adeguata ad accogliere i fedeli dei due riti. Ciò avvenne in maniera palese con la nomina a protopapa di don Antonio Cetera (1460–1466). Da questo momento, fino al 1615, la figura del protopapa fu unita a quella dell’arciprete latino in un rapporto di coincidenza nella diversità destinato a durare per un secolo e mezzo. Con il Cetera, infatti, si inaugurò la schiera dei protopapi–arcipreti, muniti della prerogativa double face di celebrare sia con il rito bizantino sia con quello latino. Nel 1585 il nuovo presule neretino don Fabio Fornari (1583-1596) compì la sua visita pastorale a Galatone e poté constatare di persona la persistenza della tradizione liturgica bizantina e la stretta mescolanza tra clero greco e latino nella chiesa maggiore. Proprio nel 1585 il Fornari inviò due missive, la prima al card. Alessandrino e la seconda al card. Santoro, deputati della Congregazione per la Riforma dei Greci. Similmente a numerosi altri prelati salentini del tempo, chiedeva indicazioni su come comportarsi dinanzi alla presenza orientale nella propria diocesi. Il Cardinale di Santa Severina rispose alla lettera del Fornari del 22 luglio 1585 il 16 agosto dello stesso anno, imponendo che restassero bizantine solo quelle comunità in cui clero e fedeli erano in grado di comprendere realmente i riti che celebravano. Non aveva senso che una popolazione che non parlava più correntemente in greco e, magari, preti ignoranti continuassero a officiare alla maniera orientale. Ufficialmente, il clero greco cessò di esistere nel 1613, con la morte di don Giorgio Raho. In realtà, nel 1673 officiavano ancora sei sacerdoti di rito orientale, rifiutatisi di accettare la latinizzazione. Un capitolo realmente doloroso per la storia e la cultura di Galatone, intanto, si era aperto molto tempo prima, con l’avvio dei lavori di demolizione dell’antica chiesa greca, nel 1591. Il dottissimo arciprete don Cosimo Megha, nella sua relazione sulla chiesa di Galatone, inviata nel 1637 al vescovo di Nardò Fabio Chigi, il futuro papa Alessandro VII, definì l’antica cattedrale greca «graecorum more constructa». Nel corso della seconda convenzione tra Capitolo e Università di Galatone per la costruzione dell’attuale Collegiata latina, presente mons. Fornari, si affermò che l’antica fabbrica «vecchia, mal fatta, et incomoda, minacciava ruina». Era il 25 agosto 1592 e i lavori di demolizione erano iniziati il 9 dicembre dell’anno prima. Appariva antica, certamente anteriore all’XI secolo, forse non comoda e adatta per le celebrazioni latine. Probabilmente necessitava di restauro ma, di sicuro, non era «mal fatta». Lo dimostrano le uniche due opere superstiti della chiesa greca, il Cristo morto (conservato sotto l’altare della Crocifissione in Chiesa Madre) e la Madonna di Costantinopoli (attualmente venerata nella chiesa dell’Odegitria). Sono splendidi esempi di scultura in pietra policroma, unici in Terra d’Otranto. Si edificò il nuovo tempio, dunque, solo per estirpare il rito greco a Galatone, eliminandone il luogo simbolo.
Dell’ingente patrimonio librario greco di cui erano corredate le chiese di Galatone, unici superstiti restano otto fogli pergamenacei e soltanto tre testi rilegati. Sei di tali fogli, della misura di mm. 310 x 230, sono i frammenti di un evangeliario risalente al sec. XIII-XIV. Con tutta probabilità, furono squinternati nella prima metà del Seicento per fungere da rilegatura a manoscritti più recenti. Un altro foglio, della misura di mm. 210 x 140, appartiene ad una Parakletikè oktòekos. Il periodo di composizione è compreso, anche per tale manoscritto, tra il sec. XIII e il XIV. Palinsesto del XII secolo è, invece, un foglio della misura di mm. 200 x 135. Contiene l’ultima parte del testo liturgico per la celebrazione dell’ora nona e l’inizio del vespro. Dei testi rilegati, il più recente è il Codice Galatonese II (sec. XVI-XVII), contenente antifone, troparia, epistole e vangeli delle domeniche e delle feste più importanti del calendario bizantino. È composto da 207 fogli di 18 righe ciascuno e misura mm. 209 x 141. Entrambi databili tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo sono, invece, il Codice Galatonese III e il Codice Galatonese IV. Il Codice Galatonese III, composto di due libri, consta di 383 fogli da 17 a 24 righe ciascuno e misura mm. 210 x 150. Riporta un anthològhion (florilegio) di sacre ufficiature per le feste da celebrare tra il 27 dicembre e il 31 agosto. Il Codice Galatonese IV contiene l’akolouthìa (ufficiatura) per san Francesco d’Assisi e due frammenti di quella per san Nicola di Myra.
L’attuale tempio, ultimato nel 1595, fu edificato dal team edile di Gian Maria Tarantino, coadiuvato per le opere di carpenteria e le impalcature lignee dal maestro d’ascia Scipione Fanuli. La facciata, realizzata in conci di carparo, è ripartita in tre ordini. Con la semplicità del primo ordine, scandito da sei paraste, contrasta la raffinatezza rinascimentale del secondo ordine, nella cui parte centrale si apre una deliziosa bifora con colonne a capitello composito e sovrastata da un timpano spezzato. Ai suoi lati, simmetricamente, si aprono due monofore strombate. Nel terzo ordine due loggette balaustrate accompagnano una bifora cieca, in cui campeggiano le insegne della civica università galatea e del capitolo collegiale. Sulla sommità, la data del 1595 rammenta il completamento strutturale dell’edificio. Affianca la facciata, sulla destra, una maestosa torre campanaria a tre piani, eretta in tre fasi: i primi due ordini furono costruiti tra il 1599 e il 1750. Circa l’interno, l’aula liturgica ha pianta a croce latina. Il soffitto è a capriate, ripristinate solo in parte nel 1999, dopo la scellerata distruzione delle trabeazioni lignee originali e di moli altri arredi della chiesa tra 1955 e 1958. In seguito a questa vandalica spoliazione, sono andati perduti il coro ligneo seicentesco, con i braccioli intagliati a mo’ di animali fantastici, tratti dal bestiario allegorico medievale e l’antico organo a canne dell’Olgiati, con la sua cantoria lignea. Le tinte vivaci del tempio sono state coperte da un piatto bianco calce e quella che un tempo appariva come una chiesa stupenda, oggi non comunica nulla di particolare. Rimangono ad abbellire il sacro edificio le splendide tele oleografiche, quattro delle quali di Donato Antonio D’Orlando (1562-1622 ca), ovvero la Crocifissione, l’Immacolata, la Madonna della Misericordia e la Madonna del Carmine. Preziosa la tela del Martirio di San Sebastiano, attribuita a Mattia Preti (1613-1699). Graziosi pure i dipinti della Madonna della Grazia, della Madonna di Costantinopoli, di Sant’Oronzo, dell’Ultima Cena e dell’Assunta. Pregevoli pure le sculture, tra cui l’antico Cristo morto in pietra policroma, il Crocifisso ligneo tardo cinquecentesco che troneggia sul coro, il seicentesco fonte battesimale in pietra, il San Sebastiano ligneo, di scuola romana. Assai ricco il tesoro, seppur smembrato da numerosi furti, con preziosi vasi sacri e suppellettili, oltre all’armadio reliquiario posto nella cappella del santo patrono della città.
Testi: Francesco Danieli